Paul Klee,
artista dell’Espressionismo, in poche righe compone un completo racconto delle
peripezie dell’arte determinate dall’incessante e smaniosa ricerca della
verità, tradotta poi in una progressiva presa di coscienza della propria
essenza da parte dell’uomo.
Klee ci
inizia al suo ragionamento a partire dall’arte del passato, presentata come
rappresentazione fedele delle cose visibili sulla Terra o desiderate da ogni
individuo, basti pensare al magnifico dipinto della Città ideale conservato nel
Museo dell’Istituto delle Belle Arti di Urbino.
L’artista
del passato è intenzionato a riprodurre, mostrando le proprie abilità, qualcosa
che ognuno di noi conosce o perlomeno è in grado di immaginare, proprio perché
esistente e concreto.
Inevitabilmente questo mi porta ad immaginare il mondo che ci avvolge come una
di quelle sfere di vetro con della neve finta che solitamente racchiudono un
umile villaggio, popolato da poche pedine fra le quali si potrebbe celare
l’artista. Quello del passato, riproducendo esattamente parti di quella
struttura, ne rimane come inglobato poiché la gamma di cose possibili da
rappresentare, per quanto ampia possa essere, è pur sempre limitata.
Per
convincersi che il visibile costituisca solo un esempio isolato di realtà, non
occorre uscire furi dalla sfera di vetro poiché necessariamente ne siamo
parte, ma bisogna prendere il coraggio di esplorare i meandri più profondi
della nostra anima, scoprendo in questa maniera mondi infiniti e irripetibili,
di certo non manifesti, se non a noi stessi.
Difatti, i
volti scarni e stremati dal dolore di Edvard Munch, circondati sempre da
pennellate tormentate che deformano il paesaggio si rivestono di senso solo se
affiancati agli strazianti lutti familiari della sua infanzia. Lo stesso
discorso vale per il trauma infantile subito da Renè Magritte, alla visione
della madre morta annegata con la testa avvolta in un lembo di stoffa bianco,
che influenzerà le rappresentazioni dei volti nelle sue opere.
Se attraverso questi due esempi risorgono prepotenti le parole di Platone che
vedono l’arte come copia delle idee precedentemente incontrate nell’Iperuranio,
nell’arte, però, molti artisti hanno trovato anche un modo per evadere da una
realtà in cui si sentivano fin troppo costretti, concretizzando sulla tela i
propri più profondi desideri. Si tratta del caso di Vincent Van-Gogh, il quale,
preso nella sua ossessiva ricerca della felicità, è arrivato a mangiare della
tempera gialla, colore che incarnava al meglio questo stato d’animo
irraggiungibile.
Dunque, la
tela diviene per l’artista manifestazione della propria essenza, la tela
diviene uno specchio che gli viene brutalmente messo davanti. Si tratta, però,
non di uno specchio qualunque, ma dello Specchio delle “Emarb” (da leggere al
contrario) che, in Harry Potter, ad ogni persona osservi il su riflesso rivela il
suo più profondo desiderio, di cui magari ancora non si è consapevoli.
Quando lo specchio rivela ad Harry il suo riflesso accompagnato da quello dei
suoi genitori, istintivamente il ragazzino si volta credendo che quelle figure
siano reali, ma si scopre da solo “davanti alle sue brame”. Così è l’artista,
solo davanti alla tela e solo nell’esplorarsi e nella fuga dal reale.
Difatti,
Klee arriva ad affermare che la fantasia riesce a comporre situazioni più reali
di quelle terrestri perché più vicine ai nostri desideri, bisogni e necessità.
L’arte rende manifesto sia il manifesto che il non manifesto: sia il visibile,
sia l’essenza di ogni uomo, ovvero il mondo dello spirito, proprio come
sottolineato da Hegel nella sua ultima triade dello spirito assoluto, in cui
l’arte è un elemento fondamentale per raggiungere la filosofia e quindi lo
spirito stesso.
Il
Novecento viene ricordato come il secolo della crisi delle certezze: con le
guerre mondiali, le scoperte scientifiche, il progresso tecnologico hanno, infatti,
determinato il radicale cambiamento dell’attitudine dell’uomo nei confronti di
ciò che lo circonda e che inevitabilmente lo influenza. Non esiste più un’unica
realtà oggettiva e immutabile, ma come sottolinea Einstein a molteplici
prospettive corrispondono molteplici realtà.
Quest’idea, che nel XX secolo andava diffondendosi rapidamente, era già stata
espressa secoli prima da Ludovico Ariosto in un passo dell’”Orlando Furioso”,
in cui Astolfo osserva la Terra dalla Luna e si rende conto di come i due corpi
celesti cambino radicalmente le loro sembianze se visti da diversi punti di
osservazione: la luna gli appare come un globo d’acciaio molto più grande di
come appare dalla Terra, e la Terra, che prima di luce propria, non si vede
neppure.
Quella di Ariosto, però, era la voce di uno solo fra tanti a cui non viene dato
il giusto spazio, spazio che, al contrario, nel Novecento viene conquistato
impetuosamente dal concetto della relatività, il cui percorso inizia in maniera
latente e finisce per permeare nelle arti tutte, dalla musica alla letteratura,
dalla filosofia alla pittura.
Proprio
per il fatto che le arti si fanno portavoce di questi molteplici punti di
vista, si assiste nel Novecento ad una proliferazione di artisti di ogni
genere, i quali tentano in ogni modo di mostrare al mondo la realtà osservata
indossando le proprie lenti, profondamente differenti da quelle verdi kantiane
poiché composte dal mescolamento di diversi colori dati dalle molteplici
esperienze, ideali, ricordi e studi di ognuno.
La visione
dell’arte espressa precedentemente può essere ben riassunta nell’attività di Pablo
Picasso, a mio avviso emblema di tale pensiero, in quanto al contrario di come
la massa è portata a pensare di fronte alla maggior parte delle opere,
l’artista malacitano era assolutamente capace di riprodurre fedelmente gli
oggetti della realtà circostante, ma piuttosto che rendere l’arte un banale
specchio della realtà limitandosi a ricoprire il ruolo di un mero epigono,
ovvero imitatore e ripetitore del visibile, ha deciso di imprimere sulla tela
tutte le possibili prospettive necessariamente filtrate dalla sua personalità.
Noemi Ercoli 5D
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